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    Fukushima, cosa ci insegnano gli studi sulle radiazioni dopo la catastrofe

    Nel 2011, l’incidente nucleare in Giappone, ha portato alla diffusione di cesio radioattivo (radiocesio) negli habitat circostanti. Dieci anni dopo, si studiano possibili strategie di mitigazione

    di Lisa Ovi

    Tutti ricordiamo il disastro nucleare di Fukushima Dai-ichi dell’11 marzo 2011, il peggiore dai tempi di Chernobyl.

    Un terribile terremoto di magnitudo 9 al largo delle coste del Giappone diede vita ad uno tsunami alto 14 metri che superò facilmente le barriere erette a protezione della centrale nucleare sita nella prefettura di Fukushima, andando a compromettere i generatori di emergenza da cui dipendevano i sistemi di raffreddamento dei reattori. Nel giro di pochi giorni si arrivò al meltdown completo dei reattori 1, 2 e 3.

    Il disastro di Fukushima ha molto da insegnare, non solo sulla sicurezza degli impianti, ma anche su come sviluppare sistemi di protezione e mitigazione l’area circostante. Da un punto di vista tecnico, infatti, l’analisi del caso Fukushima ha portato ad identificare numerosi punti critici, ma a distanza di un decennio e più, il problema maggiore rimane bonificare dalle radiazioni un territorio caratterizzato più da dense foreste vergini che da centri abitati.

    Ora, ricercatori del National Institute for Environmental Studies, in Giappone, condividono con una pubblicazione su Environmental Pollution i risultati di anni di studi sulla diffusione di materiali radioattivi come il radiocesio nelle foreste e nei fiumi, nella speranza si possa arrivare a formulare strategie di difesa preventiva per le comunità umane limitrofe.

    Per comprendere la dinamica del dispersione del radiocesio negli ecosistemi forestali, i ricercatori hanno analizzato i dati relativi a ciascun processo coinvolto negli spostamenti del materiale radioattivo. “Abbiamo osservato che il radiocesio si accumula principalmente nello strato di suolo organico nelle foreste e nell’acqua stagnante nei corsi d’acqua, rendendoli così importanti fonti di organismi contaminanti”, afferma il dott. Masaru Sakai, responsabile dello studio.

    Inizialmente, a seguito all’incidente, il radiocesio si depositò sulle cime degli alberi e sul suolo delle foreste. Da qui, grazie alle piogge ed alla caduta delle foglie cominciò ad accumularsi negli strati superiori del suolo, venne disperso per il territorio da insetti e funghi e, contaminata la catena alimentare, raggiunse agli organismi superiori. Un processo simile fu osservato nei corsi d’acqua e nei bacini idrici della zona, dove una porzione importante del radiocesio finì assorbita dai minerali dei fondali, ma un’altra rimase nell’acqua.

    Secondo i ricercatori, questo quadro rende difficile la formulazione di una strategia univoca per proteggere un territorio dalla diffusione di materiali radioattivi, in assenza di studi interdisciplinari approfonditi.

    Nel frattempo, date le somiglianze tra il radiocesio ed il potassio, minerale spesso utilizzato come fertilizzante naturale, gli scienziati suggeriscono di studiare strategie simili a quelle utilizzate per i territori contaminati da un eccesso di potassio. Nel caso degli ambienti acquatici, invece, poiché il radiocesio tende ad accumularsi nelle valli sorgive, nelle pozze e in altre aree di acqua stagnante, i ricercatori promuovono la costruzione di dighe che possano intrappolare, almeno in parte, il materiale radioattivo.

    L’economia giapponese dipende inevitabilmente dall’accesso all’energia nucleare, una fonte di energia importante anche in Europa. Saper pianificare misure di risposta a eventi di contaminazione imprevedibili è fondamentale. La piena comprensione del comportamento del radiocesio negli ecosistemi può non solo portare a una gestione efficace della contaminazione esistente, ma anche garantire il rapido contenimento di potenziali incidenti futuri.

    (lo)

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