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    Il divieto di pubblicità politica di Facebook non risolve nulla

    La moratoria proposta dall’azienda sui nuovi annunci politici pochi giorni prima delle elezioni intende rispondere all’accusa .di alterare gli equilibri elettorali, ma evita di affrontare i problemi di fondo.

    di Tate Ryan-Mosley

    Quando Mark Zuckerberg ha  annunciato  che Facebook avrebbe smesso di accettare la pubblicità politica nella settimana prima delle elezioni presidenziali statunitensi, stava rispondendo alla paura diffusa che i social media possano influire in modo determinante sull’esito delle elezioni.  Le campagne politiche credono da tempo che il contatto diretto con gli elettori e la messaggistica personalizzata siano strumenti efficaci per convincere le persone a votare per un determinato candidato. 

    Nel 2016 sembrava che i social media stessero amplificando questa minaccia e che la raccolta invasiva di dati e il sofisticato targeting politico avessero improvvisamente creato i presupposti per il disastro democratico. L’idea di schemi di manipolazione algoritmica che facciano il lavaggio del cervello ad ampie fasce dell’elettorato statunitense online è un bel modo per spiegare la natura polarizzata dell’opinione pubblica americana. In realtà, dicono gli esperti, è piuttosto improbabile che la pubblicità politica mirata abbia esercitato molta influenza sul comportamento degli elettori.

    Gran parte del ragionamento alla base del divieto si basa sull’idea che i social media possano convincere gli elettori indecisi. Questa è stata la narrativa sin dalle elezioni del 2016, quando Cambridge Analytica ha affermato di aver utilizzato la “guerra psicologica” per manipolare gli elettori indecisi vulnerabili su Facebook inducendoli a credere alle fake news e a convincerli a votare per Donald Trump.

    Il “The Guardian” ha riferito ampiamente sull’idea di Cambridge Analytica “di portare i big data e i social media ad acquisire tecniche informative metodologicamente consolidate” per influenzare l’elettorato statunitense”.  

    Ma, in realtà, le campagne politiche non riescono ancora a persuadere gli elettori indecisi molto meglio di quanto riuscissero a fare 10 anni fa. Alcuni suggeriscono che l’associazione di determinati attributi online con i profili degli elettori consente di raggruppare gli elettori target in gruppi più piccoli e più specifici, il che permetterebbe di condizionarli. Per esempio, si potrebbe presumere che tutti gli elettori indipendenti del Minnesota a cui è piaciuto il Bass Pro Shop, un’azienda di articoli per la caccia, la pesca e il campeggio, siano favorevoli alla vendita libera delle armi.  

    Ma Eitan Hersh, professore associato della Tufts University, afferma che queste ipotesi sono sensibili all’errore. Una campagna potrebbe presumere che “la persona che guarda Jersey Shore ha X tipi di tratti della personalità”, egli dice, ma “non è detto che la riflessione sia corretta”. Anche se gli errori non esistessero, è quasi impossibile misurare se gli annunci sono stati efficaci nel modificare il comportamento di voto di qualcuno. Il voto, dopotutto, è segreto. 

    Ciò non significa che la pubblicità sia inutile, tuttavia. In effetti, il sistema di pubblicità politica mirata online è efficace sotto due punti di vista: in primo luogo, ha consentito alle campagne di dividere gli elettori tra decisi e indecisi utilizzando i dati, e in secondo luogo, la messaggistica è diventata più efficace come risultato di sofisticati test con due varianti A e B . 

    Il problema più grande

    Ma la vera forza della pubblicità politica online sta nel seminare discordia. Le reti di social media funzionano eseguendo potenti algoritmi di raccomandazione dei contenuti che sono noti per frammentare l’opinione pubblica. Non convincono gli elettori a cambiare il loro comportamento, ma rinforzano le convinzioni degli elettori già decisi, spesso spingendoli in una posizione più estrema di prima. Ciò significa che gli annunci proibiti – quelli delle campagne elettorali dei partiti – non sono ciò che sta cambiando la democrazia; in realtà, sono gli stessi algoritmi di raccomandazione che aumentano la polarizzazione e diminuiscono la capacità di confronto democratico dell’elettorato. 

    Sam Woolley, il direttore del progetto per la ricerca sulla propaganda presso il Center for Media Engagement dell’Università del Texas, afferma che mentre è “contento che Facebook stia facendo delle mosse per sbarazzarsi delle pubblicità politiche”, si chiede “fino a che punto le aziende di social media continueranno a compiere piccoli passi quando hanno davvero bisogno di affrontare un problema che riguarda l’intero ecosistema”.

    “Gli annunci politici sono solo la punta dell’iceberg”, egli afferma. “I social media hanno orrendamente esacerbato la polarizzazione e la frammentazione perché hanno permesso alle persone di diventare più isolate e intolleranti perché non si impegnano nelle comunicazioni faccia a faccia, si rifugiano dietro il muro dell’anonimato e non si rendono conto delle conseguenze reali delle cose che fanno”. Questi algoritmi possono sembrare matematici e oggettivi, ma Woolley afferma che il sistema è “incredibilmente soggettivo”, con molte decisioni umane dietro a come e perché un determinato contenuto viene consigliato. 

    Quindi il divieto di Facebook di accettare contenuti politici prima del 3 novembre non contribuirà a cambiare il comportamento degli elettori. In effetti, dal momento che gli algoritmi di Facebook danno più peso ai post con un po’ di tempo e circolazione alle spalle, il divieto di Zuckerberg potrebbe non avere alcun impatto significativo. 

    Affrontare il resto dell’iceberg richiede una ristrutturazione totale di ciò che sono effettivamente i social media. “Non si può negare che l’alterazione fondamentale del nostro sistema mediatico ha cambiato irreparabilmente il modo in cui condividiamo le informazioni, formiamo le nostre opinioni e ci confrontiamo con gli altri”, conclude Woolley. 

    Cosa significa questo per la democrazia?

    Questo non è un problema completamente nuovo. Il sistema politico americano ha utilizzato pubblicità politica mirata per decenni, molto prima di Internet. Negli anni 1950, prima che i cookie tracciassero il comportamento online dell’utente per creare registri dettagliati, le campagne inviavano i procacciatori di voti a indirizzi specifici che ospitavano elettori indecisi. Negli anni 1960, prima che gli inserzionisti online iniziassero a pubblicare annunci personalizzati per convincere l’elettore che il suo iPhone stava ascoltando quello che diceva, i data scientist elaboravano messaggi di ingegneria rivolti a piccoli gruppi di elettori persuadibili. 

    Il ruolo dei social media non è stato quello di cambiare drasticamente la direzione di questo sistema, ma di intensificare la polarizzazione e la frammentazione. Inoltre, gruppi più grandi ed estremi diventano anche vettori di disinformazione e propaganda, il che accelera e aggrava il problema. Queste sfide vanno ben oltre il divieto di Facebook: sfidano l’intero ecosistema economico e informativo online. 

    “Le reti di social media, in particolare, hanno modificato il modo in cui pensiamo alla democrazia”, afferma Woolley. “Hanno minato alla base il nostro sistema di comunicazione democratica, contrariamente a quello che pensavamo avrebbero fatto. E il futuro rimane un punto interrogativo”. 

    (rp)

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