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    Ucraina, la cybercaccia ai criminali di guerra

    Le abilità affinate nella ricerca online degli assalitori del Campidoglio stanno permettendo a investigatori dilettanti online di documentare le atrocità in Ucraina. Ma non basta un’immagine o una ripresa per avere giustizia

    di Tanya Basu

    Come molte altre persone, il 23enne Aeden si è sentito impotente quando la Russia ha invaso l’Ucraina alla fine di febbraio, ma la sua bravura nella raccolta di informazioni open source, vale a dire nel perlustrare il web per raccogliere dati pubblicamente disponibili, gli ha permesso di dare il suo contributo. Si è offerto come volontario a  Bellingcat, un gruppo di giornalismo investigativo, per aiutare ad autenticare immagini e video di possibili crimini di guerra commessi in Ucraina, nella speranza che il lavoro possa portare ad eventuali procedimenti giudiziari da parte della Corte penale internazionale.

    Dall’inizio della guerra, persone in tutto il mondo hanno cercato di aiutare i rifugiati e la causa ucraina. Per coloro con capacità investigative come Aeden ciò significa usare il loro tempo per documentare possibili crimini di guerra, come bombardamenti di edifici civili o spazi protetti come ospedali, valutandone la loro posizione esatta.

    I tentativi di trovare online i rivoltosi del 6 gennaio negli Stati Uniti si sono dimostrati preziosi per questa ricerca in Ucraina. Ma non è chiaro se e come tale sforzo si tradurrà effettivamente in prove ammissibili per un potenziale processo per crimini di guerra, soprattutto senza un sistema condiviso globalmente per classificare la marea di prove in arrivo.

    Le organizzazioni per i diritti umani hanno già inviato investigatori professionisti in Ucraina per raccogliere dati su possibili crimini di guerra. Rich Weir, ricercatore di Human Rights Watch, è atterrato a Kiev il 23 febbraio e, la mattina dopo, si è svegliato con la notizia dell’invasione.  Il suo lavoro durante i primi giorni di guerra è stato tumultuoso. 

    In una guerra dell’informazione in cui le voci e la disinformazione dilagano, la verifica è lo strumento essenziale. Non è sufficiente vedere solo un video di un attacco o una foto di cadaveri. Con la comunicazione Internet interrotta in molte parti del paese, Weir ha dovuto ricorrere a metodi “analogici” per controllare la veridicità degli incidenti, cioè spostarsi direttamente sul luogo o parlare con i rifugiati con ottenere un resoconto di prima mano di quanto successo.

    Il lavoro è sempre più complesso. La Siria è un ottimo esempio di questa difficoltà. “In questo paese esistono una marea di foto e video che documentano i possibili abusi e le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani”, spiega. “Eppure, nonostante tutti questi dati, la giustizia è stata lenta, risparmiando finora il dittatore siriano Bashar al-Assad dal processo internazionale”.

    Anche se la guerra finisse domani, la messa sotto accusa di Vladimir Putin o di qualsiasi comandante russo coinvolto in crimini di guerra richiederebbe anni, ammesso che accada. La costruzione di un caso richiederebbe che gli investigatori geolocalizzino e verifichino tutte le prove digitali. Ciò che potrebbe accelerare questa sequenza temporale è la legione di persone in tutto il mondo che sono disposte e in grado di svolgere tale lavoro, grazie in parte all’esperienza di documentare gli eventi del 6 gennaio 2021 negli Stati Uniti.

    Aeden ha passato il suo tempo a geolocalizzare le prove di vittime civili e danni alle infrastrutture civili in Ucraina. Quando riceve una foto o un video da Internet, utilizza strumenti come immagini satellitari aeree e panoramiche stradali su Google Maps per verificare la posizione. Una volta che Aeden e un altro volontario concordano un luogo (Aeden dice che l’aiuto di qualcun altro per confermare le prove è utile per avere più punti di vista), un ricercatore di Bellingcat verifica in modo indipendente le informazioni. Poi il ciclo ricomincia da capo. 

    È un lavoro impressionante, ma Lindsay Freeman, direttrice dell’Human Rights Center  dell’Università della California, a Berkeley, afferma che, nonostante le loro buone intenzioni, i risultati potrebbero semplicemente non essere all’altezza dell’onere della prova richiesto per perseguire i crimini di guerra.

    Sorprendentemente, fino a poco tempo non esisteva un singolo documento o gruppo che stabilisse regole su come raccogliere, archiviare e presentare correttamente i dati dalle zone di conflitto per un possibile processo per crimini di guerra.


    È un problema che riflette l’espansione incontrollata di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, la Corte penale internazionale e una serie di organizzazioni umanitarie e per i diritti umani che hanno poteri e giurisdizioni variabili, e fa il gioco dei criminali di guerra che sanno che potrebbero non affrontare mai la giustizia.

    Nel 2020, Freeman ha contribuito a guidare la stesura del Protocollo di Berkeley, un’iniziativa per codificare l’uso etico dell’intelligence open source. Il Protocollo, sostenuto dalle Nazioni Unite, offre un regolamento su come gestire e archiviare i dati digitali. Gran parte del documento si basa sull’esperienza in Siria, afferma Freeman, e sulle difficoltà incontrate in quel paese. 

    Ma secondo Freeman, il Protocollo non è sufficiente. Al di là del fatto che molti gruppi di aiuto hanno ancora i propri sistemi interni per l’archiviazione delle informazioni, il sistema “non prende nella dovuta considerazione il crowdsourcing”, una componente sempre più rilevante non solo nella guerra in Ucraina, ma anche in altri conflitti nel corso degli anni. Parte del motivo, sostiene Freeman, è che la Corte penale internazionale (ICC) è selettiva sul tipo di prove che accetta, spesso favorendo fonti ufficiali come televisori a circuito chiuso con indicazione oraria su filmati mossi e pixelati con la fotocamera del telefono.

    Ciò che il Protocollo di Berkeley illustra è il tiro alla fune tra ciò che la Corte penale internazionale (CPI) considera prove ammissibili e le prove raccolte con il crowdsourcing. Anche se il Protocollo rappresenta un primo enorme passo nella creazione di un caso più solido contro i criminali di guerra, testimonia anche di come la CPI sia un passo indietro rispetto allo sviluppo della tecnologia.

    Niente di tutto ciò impedisce ad Aeden di continuare ad andare avanti sulla sua strada. “A volte mi preoccupo che l’impatto di questo lavoro possa arrivare troppo tardi per le vittime di questo conflitto, ma credo che la giustizia ottenuta retrospettivamente sia comunque molto meglio di niente”, conclude. 

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