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    La vera causa del razzismo non è legata alla biologia

    Un’analisi di 63 dichiarazioni recenti mostra che le aziende tecnologiche statunitensi hanno ripetutamente attribuito la responsabilità dell’ingiustizia razziale ai neri.

    di Amber M. Hamilton

    Il 31 agosto Airbnb ha lanciato Project Lighthouse, un’iniziativa intesa a “scoprire, misurare e superare la discriminazione” sulla piattaforma di home-sharing. Secondo l’azienda, il suo progetto permetterà di identificare i pregiudizi, misurando se la “razza” percepita di un affittuario è correlata a differenze nel tasso o nella qualità delle prenotazioni, delle cancellazioni o delle recensioni di quella persona. Project Lighthouse nasce da un’ondata di dichiarazioni di solidarietà e cambiamenti politici da parte dell’industria tecnologica in risposta alle rivolte per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis il 25 maggio.

    Sebbene questi accenni alla giustizia razziale possano essere ben intenzionati, evidenziano un problema che mette in dubbio se i tentativi dell’industria portati avanti fino ad oggi possano davvero combattere i pregiudizi: la tendenza a individuare la razza, non il razzismo, come la causa della discriminazione.

    Questo modo di pensare alla disuguaglianza è emblematico della cosiddetta “racecraft” , un termine coniato dalla sociologa Karen E. Fields e dalla storica Barbara J. Fields per descrivere “il terreno mentale e le convinzioni pervasive” sulla razza e il razzismo in America. Anche se la loro esposizione del concetto è molto più approfondita, la loro formulazione di base è che l’idea stessa di razza nasce da pratiche razziste più che da realtà biologiche. La racecraft, esse spiegano, è un “trucco da prestigiatore per trasformare il razzismo in razza, lasciando i neri in vista mentre i bianchi vengono rimossi dal palco”.

    Un buon esempio può essere visto nell’introduzione di Airbnb al Project Lighthouse, in cui si sostiene che l’azienda è stata “profondamente turbata dalle storie di viaggiatori che sono stati respinti dagli host di Airbnb durante le fasi di prenotazione a causa del colore della loro pelle”. Quegli ospiti sono stati davvero allontanati a causa del colore della loro pelle o perché i loro potenziali ospiti erano razzisti?

    La stessa logica è presente in una dichiarazione di Adam Mosseri, CEO di Instagram, in cui afferma che i tentativi della piattaforma per garantire che le voci nere siano ascoltate “non si fermeranno alle disparità che le persone potrebbero sperimentare esclusivamente sulla base della razza”.

    La racecraft, come concettualizzato da Fields e Fields, è ciò che consente ad Airbnb e Instagram di trasformare un atto aggressivo, il razzismo, in una semplice categoria: la razza. Questo “trucco” pone la razza come il problema, consentendo alle aziende di assolvere se stesse dalla responsabilità del razzismo. Perpetua anche l’affascinante mito secondo cui l’abolizione delle categorie razziali porterà alla società post razziale che alcuni speravano avrebbe seguito l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti nel 2008.

    La verità con cui le aziende devono confrontarsi, tuttavia, è che le azioni razziste, non le categorie razziali, sono ciò che causa la discriminazione. Ho trovato evidenze di pregiudizi razziali in 63 documenti rivolti al pubblico, che ho raccolto e analizzato, redatti da Airbnb, Facebook, Twitter, Instagram, TikTok e YouTube, tutti emessi tra il 26 maggio e il 24 giugno di quest’anno. In un momento segnato dall’ingiustizia razziale, queste aziende erano riluttanti persino a usare la parola “razza”, optando regolarmente per “diversità”.

    Queste affermazioni (comprese quelle di TikTok e Facebook) si rivolgono esplicitamente ai neri molto più frequentemente dei bianchi, usando frasi come “Siamo con la comunità nera”. In 63 dichiarazioni, i neri e le comunità sono stati citati 241 volte mentre i bianchi sono stati citati solo quattro volte.

    In tal modo, queste affermazioni normalizzano l’idea che i bianchi siano senza razza e che solo coloro che sono oppressi dalla discriminazione razziale abbiano interesse a cambiare questo sistema. Il linguaggio adottato suggerisce anche che lo smantellamento dei pregiudizi razziali non richieda di affrontare direttamente coloro che traggono vantaggi dal razzismo.

    Questa critica potrebbe sembrare pedante, ma il linguaggio che le persone usano per parlare di razzismo influenza il modo in cui interpretano cosa sta succedendo e quali soluzioni possano sembrare appropriate. Come altri hanno evidenziato, l’espressione “sono stati coinvolti in una sparatoria con agenti” è una costruzione passiva che sminuisce l’uso della forza mortale da parte degli agenti di polizia, oscurando il loro ruolo della violenza di stato. Allo stesso modo, il linguaggio in queste dichiarazioni di aziende tecnologiche oscura il ruolo centrale che le persone bianche e il razzismo giocano nelle ingiustizie sopportate dai neri.

    Tale offuscamento si riversa nelle soluzioni che le aziende propongono. Il progetto Lighthouse, per esempio, è stato creato per esaminare le persone (nere) che subiscono il razzismo su Airbnb piuttosto che le persone (bianche) che ne sono responsabili. Anche in questo caso la razza, non il razzismo, è il problema da superare. Concentrandosi sulla razza come categoria, Airbnb ha replicato i meccanismi che tengono in vita la racecraft all’interno del suo progetto.

    Le aziende tecnologiche e le piattaforme di social media devono capire che la lotta al razzismo non può iniziare e finire con dichiarazioni di solidarietà e soluzioni tecniche. Il vero cambiamento inizia con l’aumento del numero di persone provenienti da gruppi sottorappresentati in posizioni dirigenziali, cosa che sia Airbnb che Facebook si sono impegnate a fare nelle loro dichiarazioni. Ma le aziende tecnologiche non possono pensare ai dipendenti neri come a una risorsa conveniente in tempi di sconvolgimenti razziali. 

    Nelle loro dichiarazioni pubbliche, molte di queste aziende si sono affidate ai gruppi di dipendenti neri. Tutte le dichiarazioni di Twitter, per esempio, sono state scritte da gruppi di dipendenti interni, ma, come riportato dal “Washington Post”, questo lavoro è stato spesso non retribuito, esulava dai normali doveri dei lavoratori e ha avuto potenziali ricadute negative per loro.

    Dichiarazioni blande sulla diversità e l’inclusione non riescono ad affrontare l’ ingiustizia di lunga data nei confronti dei neri che persiste nella società americana. L’industria tecnologica deve parlare di razzismo in modi che chiariscano le responsabilità dei sistemi di potere e richiamino l’attenzione sulla disuguaglianza sistemica e l’ingiustizia razziale che i neri devono affrontare. Solo allora l’industria può produrre soluzioni che riducono i danni.

    Con i disordini in corso a Kenosha, in Wisconsin, dopo l’ennesimo caso di violenza da parte della polizia, si vedranno sicuramente ancor più dichiarazioni aziendali sulla giustizia razziale. Senza una maggiore consapevolezza della racecraft e dei danni che provoca, si andrà avanti però con gli stessi errori.

    Amber M. Hamilton è una dottoranda in sociologia presso l’Università del Minnesota e un’affiliata del Microsoft Research Social Media Collective. Il suo lavoro si concentra sui rapporti tra razza e tecnologia.

    (rp)

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