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    Anche la tecnologia deve finire?

    Il dibattito sulla fine della tecnologia, che prosegue sia in filosofia sia in letteratura, ha sempre mostrato un doppio versante: quello di un mondo che può finire sotto il peso eccessivo della tecnologia e quello di una tecnologia che può finire sotto il peso eccessivo del mondo.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Qualche giorno fa, in una intervista pubblicata da “la Repubblica”, Francis Fukuyama ha fatto un non trascurabile passo indietro. Lo storico e filosofo che trent’anni fa aveva sentenziato la fine della storia, poiché la storia è conflitto e, dopo la guerra fredda, ogni possibile conflitto era venuto meno, oggi riconosce di avere sottovalutato due elementi: «Primo, la difficoltà di creare non solo una democrazia giusta, ma anche uno Stato moderno, imparziale e non corrotto; secondo, la possibilità della decadenza interna nelle democrazie avanzate».

    A pensarci bene, secondo Fukuyama, la condizione per cui la storia di tutti possa finire è che non finisca la storia di alcuni, perché, in caso contrario, qualcosa evidentemente non ha funzionato nei meccanismi interni del modello culturale, politico ed economico dominante. Perché le intrinseche turbolenze del sistema delle relazioni interne e internazionali contrastano e al limite impediscono la predominanza di una concezione della convivenza sulle altre.

    La stessa logica, a nostro avviso perversa, di un paradigma comportamentale o conoscitivo destinato a prevalere, non di tempo in tempo, ma definitivamente, sui paradigmi concorrenti, come li definiva l’epistemologo e storico della scienza Thomas Kuhn, ha trovato non trascurabili adepti anche per quanto concerne la tecnologia. Che tuttavia e per fortuna non cessa mai di “finire”, neppure quando, diventata protagonista delle vicende storiche più drammatiche del Novecento, sembrava avere conseguito il suo culmine: tanto culminante da diventare la matrice di visioni del mondo alternativamente utopistiche o apocalittiche.

    Dalla metà del secolo scorso viviamo in una sorta di tempo apocalittico, nonostante la euforia per una industrializzazione che le nuove infrastrutture della mobilità e della comunicazione hanno diffuso in tutto il mondo, dopo le immani distruzioni della Seconda guerra mondiale.

    La pendolare alternativa tra la “tecnofilia”, l’amore per la tecnologia, e la “tecnofobia”, il terrore per la tecnologia, ha trovato la sua più generale e incisiva motivazione nella scoperta della energia nucleare, variamente declinata nelle sue versioni di pace o di guerra. 

    Ne restano testimonianze eloquenti nella proliferazione di una vera e propria “teoria della fine del mondo”, quanto meno del mondo di allora, a cui contribuirono eminenti scrittori come George Orwell, descrivendo il regime oppressivo e omologante di 1984 – pubblicato nel 1949, ma iniziato nel 1948, da cui deriva il titolo con la inversione delle ultime due cifre – e Robert Jungk, il quale con Il futuro è già cominciato, del 1952, e Gli apprendisti stregoni, del 1956, riapriva le porte alla “cultura del sospetto”.

    A poco servirono i richiami filosofici e antropologici a considerare la fine nella prospettiva di nuovi inizi, come in Italia fece Ernesto de Martino, il quale ancora in punto di morte riaffermava la esigenza di una valutazione e di una ricomposizione personale e responsabile delle crisi incombenti (si veda in proposito il nostro I passaggi di Ernesto de Martino, Sossella, 2021). 

    Anzi, la “paura del baco”, con le sue scadenze millenaristiche, ha preso il posto della “paura della bomba”, a cui ci eravamo fatalmente assuefatti. Dal fungo nucleare, che avrebbe desertificato il mondo, l’attenzione si è spostata sulle crescenti difficoltà della vita quotidiana, sempre più affidata ad apparecchiature sempre meno affidabili.

    Problemi come la crescente erosione della privacy, la disoccupazione dovuta alla tecnologia e la dequalificazione individuale animano i più recenti scenari apocalittici e poco importa che siano frutto di buone o di cattive intenzioni. Per esempio, il futurologo tedesco Gerd Leonhard, autore di Tecnologia vs umanità (Egea, Università Bocconi, 2019) scrive che «siamo in uno snodo cruciale nell’evoluzione tecnologica. Il cambiamento diventerà esponenziale, inevitabile e irreversibile. È la nostra ultima possibilità di decidere fino a che punto permetteremo alla tecnologia di plasmare le nostre vite».

    Il primo grande fattore rivoluzionario delle tecnologie esponenziali risiederebbe nella Intelligenza Artificiale, vale a dire la realizzazione di macchine, materiali o immateriali, intelligenti e capaci di apprendere da sole, con una velocità di crescita doppia rispetto a quella di tutte le altre tecnologie. 

    Il secondo grande fattore rivoluzionario risiederebbe nella ingegneria del genoma umano, vale a dire nella possibilità di alterare il DNA per riprogrammare, almeno teoricamente, i nostri corpi. Entrambi questi fattori, sempre secondo Leonhard, fungeranno da catalizzatori nello sviluppo di tecnologie rivoluzionarie, quali la nanotecnologia e le scienze dei materiali.

    Anche il giornalista Massimo Gaggi scrive a ragione, in Homo Premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza, 2018), che «viviamo in una rivoluzione fin qui sottovalutata: mestieri scomparsi, nuove professioni, la tecnologia che accentua le diseguaglianze tra i ceti della conoscenza, più ricchi e longevi, e chi resta indietro. E la politica? Si mostra incapace di indirizzare processi che cambiano l’economia, i rapporti sociali, perfino la percezione della democrazia».

    L’altra faccia di questo al tempo stesso travolgente e timoroso procedere verso il futuro, si ritrova in un altro modo di concepire la fine della tecnologia, in senso non attivo, la tecnologia che provoca la fine, ma passivo, la tecnologia che subisce la fine: «Blackout. Tutto spento. Prima il boato, poi tutto spento. Ogni singolo apparecchio tecnologico in modalità off. E non c’è telecomando che possa riattivarlo. Lo stesso vale per gli smartphone, i tablet e i pc. Nessuna connessione, niente più campo, gli schermi neri grafite non reagiscono». Don DeLillo nel suo ultimo romanzo, Il silenzio (Einaudi, 2021), aggiunge che «quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio».

    Il dilemma si apre davanti a noi in tutta la sua drammaticità: cosa sarebbe preferibile, che la tecnologia continui a crescere, che non finisca, con il rischio di venirne sopraffatti, o che la tecnologia crolli su se stessa, che finisca, con il rischio di restare sprovvisti di tutto, abbandonati a noi stessi. Sembra il proverbiale dilemma del prigioniero: cosa è meglio, denunciare o assecondare il nostro complice? 

    Ovviamente non pensiamo di avere una risposta convincente, anche se la logica dice che la strategia collaborativa sembrerebbe la migliore. Vogliamo soltanto sottolineare come nella “potenza” della tecnologia si nasconda comunque un “potere” che appare preoccupante proprio perché, nella sua crescita tanto impetuosa quanto incontrollabile, minaccia di non avere più, di non volere più una fine. 

    In definitiva, paradossalmente, non che qualcosa non finisca, ma che qualcosa finisca rappresenterebbe una promessa per il futuro. In proposito, per continuare a riflettere, varrà la pena di rileggere una delle pagine conclusive di Novecento, l’affascinante monologo di Alessandro Baricco (Feltrinelli, 1994) da cui Gabriele Tornatore ha tratto il mitico film La leggenda del pianista sull’oceano (1998): «C’era tutto. Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. […] Tutto quel mondo. Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce. E quanto ce n’è! Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla?».

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