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    Faticosamente digitali

    Nonostante le difficoltà che ogni innovazione comporta, si sperava che la trasformazione digitale rendesse più agevoli le modalità della convivenza, ma al momento le carenze dei nuovi sistemi tecnologici e le perduranti difficoltà di accesso sembrano complicare piuttosto che facilitare le relazioni tra il pubblico e il privato.

    di Gian Piero Jacobelli

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    La trasformazione digitale incombe non soltanto nella pubblica amministrazione e nelle organizzazioni aziendali, ma anche – sollecitata, se non agevolata, dalla perdurante pandemia – nella vita quotidiana, che riguarda ciascuno di noi, nelle nostre relazioni personali e istituzionali. Questa pervasività si correda non soltanto di nuove regole comportamentali, ma anche, da un punto di vista psicologico, di una sorta di incalzante e intransigente coazione a ripetere.

    Essere digitali sta diventando un ineludibile imperativo categorico, che mette a dura prova le diffuse aspettative nei confronti della trasformazione digitale, prospettata come una tecnologica panacea in grado di migliorare la efficienza e la rispondenza di qualunque operazione, semplice o complessa, devolvendone la gestione a impersonali algoritmi.

    In altre parole, l’attuale Manifesto del partito digitale promette di migliorare il benessere individuale e collettivo, non più in contrapposizione l’uno con l’altro, ma in reciproca sinergia, consentendo, come si dice, di risparmiare tempo e fatica, tanto nelle attività private, quanto in quelle pubbliche. Tuttavia, proprio a proposito della fatica, del fare e quindi del vivere, si stanno moltiplicando le perplessità, spesso contraddittorie, come avviene quando non si sa ancora bene cosa stia succedendo.

    Da un lato si rileva la sempre più diffusa dipendenza dalla tecnologia mediatica, sottolineando come soprattutto le giovani generazioni facciano fatica a staccarsi dagli schermi piccoli e grandi che punteggiano e animano la loro vita, ma in misura crescente anche quella di chi non è più giovane. In questo caso si parla di “cyberdipendenza”, che contribuisce a rimuovere dal tempo della vita quelle alternanze tra tempo occupato e tempo libero, quelle pause in cui si articola una vita attiva, sostanziando sia la fatica sia il “riposo del guerriero”.

    Dall’altro lato si parla senza mezzi termini di “fatica digitale”, che insidia e rende precaria così la vita di lavoro come la vita di relazione. Da questo punto di vista, tanto più la tecnologia si fa piccola, scomparendo quasi nella percezione dell’ambiente in cui viviamo e operiamo, tanto più si fa grande, ingombrante e imperiosa dal punto di vista delle funzioni a cui progressivamente presiede, non lasciando spazio ad alternative strumentali, neppure quando potrebbero apparire più immediate, praticabili e convenienti.

    La vita di relazione precedente alla quarantena e alle conseguenti modalità comportamentali comportava senza dubbio operazioni più diversificate e di conseguenza fatalmente faticose: vestirsi, uscire di casa, servirsi dei mezzi di trasporto pubblici o privati, recarsi là dove ci portano gli interessi e i doveri quotidiani e via dicendo. Tuttavia la loro stessa variabilità e mobilità le rendeva accettabili e persino desiderabili.

    In effetti, rispetto alla fatica relazionale, dovuta ai dispositivi e alle persone che le incombenze quotidiane comportano, tra porte che si aprono e porte che si chiudono secondo orari rigidi e spesso scomodi, molto più faticoso si sta dimostrando il distanziamento sociale. Un distanziamento sia reale sia metaforico, non sempre imposto dalle insidie pandemiche, ma talvolta conseguente proprio alle barriere trasparenti, gli schermi, che per una sorta di seduttiva “mediazione in più” si stanno moltiplicando, allontanandoci dagli altri, anche quando degli altri avremmo bisogno per conseguire i nostri obiettivi di “burocratica” convivenza.

    Molti avranno salutato con entusiasmo la sollecitante opportunità di trasformare gli innumerevoli sportelli fisici di cui è costellata la nostra vita, nei suoi molteplici aspetti sociali, economici e politici, in un accesso digitale che dovrebbe risultare radicalmente facilitato e facilitante. Ma, dopo essersi ripetutamente scontrati con frequenti e tenaci difficoltà procedurali, costretti a replicare innumerevoli volte opzioni e percorsi virtuali, quei molti si stanno certamente chiedendo se il gioco valga la candela.

    In effetti, sta proprio nella crescente e talvolta smisurata disponibilità di connessioni e di alternative l’insidia della trasformazione digitale, che non sembra attenuare, ma moltiplicare il conseguente impegno attenzionale. 

    Certo, finiremo per assuefarci alle lunghe attese davanti allo schermo come ci eravamo assuefatti alle lunghe attese davanti ai tradizionali sportelli. Ma si tratta comunque di uno strenuo esercizio di pazienza, che non migliorerà la fiducia degli utenti nei confronti delle tante e diverse strutture amministrative. Anche se, forse, continuerà ad alimentare, nelle sue sconsolate ripetizioni operative, il miraggio di una differenza non formale, ma sostanziale.

    (gv)

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