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    La scienza come istituzione diffusa

    Un effetto importante della pandemia, al di là della collaborazione sanitaria internazionale, risiede nella convinzione che anche la scienza e le sue applicazioni tecnologiche non possano più restare appannaggio dei tradizionali centri di ricerca, pubblici e privati, ma debbano fare leva sulla aggregazione di tutte le risorse conoscitive e applicative ormai esistenti in ogni parte del mondo.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Nei giorni scorsi, parlando di sicurezza, abbiamo avuto modo di osservare come, avendo la pandemia irrigidito le regole di comportamento e di relazione, con non trascurabili riverberazioni politiche, si registra una auspicabilmente temporanea prevalenza delle istanze della conservazione, con ovvio riferimento alla salute, ma anche della pace sociale, su quelle della innovazione. Per altro, in controtendenza appare la innovazione scientifica e tecnologica, che ha fatto molti passi in avanti, soprattutto, ma non soltanto sul versante della ricerca sanitaria.

    In questo contesto, ha trovato ulteriori motivazioni il dibattito che si è aperto negli ultimi anni in merito alla “tenuta istituzionale”, grazie a cui è stato possibile affrontare con determinazione e coerenza la complessa campagna vaccinale, che riguarda tutto il mondo, poiché tutto il mondo è stato investito dalle minacce pandemiche, a parte i comprensibili ritardi e le inevitabili tensioni tra i diversi presidi nazionali e internazionali. 

    Tuttavia le istituzioni sono apparse talvolta inadeguate anche per una radicata diffidenza, che deriva da una concezione conservatrice delle istituzioni, rispetto a cui per altro sta emergendo una concezione nettamente diversa, che valorizza il processo istituente come prassi innovativa, inducendo a ripensare la ineludibile relazione delle istituzioni con la politica e la vita.

    In proposito risultano particolarmente interessanti due saggi recenti di uno dei filosofi italiani più reputati, Roberto Esposito, il quale si è ripetutamente soffermato sulla dialettica tra il corpo sociale, inteso come un organismo vivente, e le sue istituzioni, che sono indispensabili alla sopravvivenza, ma che al tempo stesso rischiano di irrigidirla in una sorta di camicia di forza normativa e comportamentale. 

    Nei due saggi, pubblicati da Einaudi (Pensiero istituente, 2020) e da il Mulino (Istituzione, 2021), si delinea un incalzante controcanto, in cui il primo pone il problema e il secondo suggerisce una soluzione, o meglio uno spettro di soluzioni che, proprio nella loro molteplicità, lasciano intendere come le istituzioni non possano venire prospettate per sempre, ma sempre storicamente e contestualmente.

    Esposito prende le mosse dai due paradigmi di filosofia politica più influenti nel Novecento – il “paradigma destituente”, in cui, da Martin Heidegger e Michel Foucault, la politica viene contrapposta radicalmente alla vita, e il “paradigma costituente”, secondo cui, da Jacques Derrida a Gilles Deleuze, la politica e la vita sono sostanzialmente la stessa cosa – per proporre un terzo paradigma in grado di superare una prassi politicamente indebolita dalla sua stessa ineluttabilità. Si tratta del “paradigma istituente”, in cui la politica recupera il suo significato concorrenziale e conflittuale, in cui la “comunità” e i suoi regimi di convivenza possono arricchirsi delle loro intrinseche alternative, predisponendole a una dinamica e operosa conciliazione “biopolitica”.

    Questa metanoia istituzionale, una vera e propria rivoluzione nel pensiero delle istituzioni, trova riscontri particolarmente significativi anche nei processi creativi della scienza. Non soltanto perché la scienza si associa automaticamente alla innovazione, ma perché anche nella scienza il “paradigma istituente” gioca in ruolo sempre più fondamentale. 

    Basta pensare, per soffermarsi ai rapporti tra la scienza e la comunicazione, alla configurazione degli attuali articoli scientifici e in particolare alla logica autorale implicita nelle diverse formule di attribuzione: dal mero ordine alfabetico, assai meno frequente, alla sequenza delle diverse responsabilità di ricerca, di stesura, di promozione. In ogni caso, sempre più spesso queste diverse funzioni, a diverso titolo gerarchizzanti, si stanno adattando alla realtà emergente della collaborazione internazionale, che rompe le tradizionali concentrazioni elitarie dei laboratori, delle scuole e delle università, passando da una dimensione localizzata a una dimensione globalizzata della scienza.

    Qualche decennio fa, nel 1962, scrivendo La struttura delle rivoluzioni scientifiche il grande epistemologo Thomas Kuhn ipotizzava che, per passare dalla “scienza normale” alla “scienza straordinaria”, ogni rivoluzione scientifica comportasse una qualche dislocazione spaziale, da un centro di ricerca a un altro, e temporale, da un prima basato sul tentativo di ridurre le anomalie emergenti nel paradigma, a un dopo in cui si decide di rinunciare alle remore implicite nel vecchio paradigma per adottare un nuovo paradigma più rispondente ai riscontri sperimentali in precedenza marginalizzati. 

    In altre parole, secondo Kuhn, contrariamente alla immagine tradizionale della scienza come “esplorazione dell’ignoto”, gli scienziati svolgono essenzialmente un lavoro di consolidamento dei principi del paradigma, focalizzandosi per lo più su casi compatibili e adatti allo scopo.

    Oggi la contrapposizione genialmente ipotizzata da Kuhn in ragione di un mondo in cui le ragioni locali prevalevano su quelle globali, sta perdendo progressivamente di attualità e consistenza in un mondo in cui la Rete consente scambi informativi “despazializzati” e “detemporalizzati”, perché pressoché ubiqui e istantanei. 

    Di conseguenza la scienza e in genere la conoscenza non possono non essere frutto di una collaborazione tra istituzioni di ricerca lontane nello spazio e nel tempo, ma permanentemente collegate tra loro. Di istituzioni che non rinchiudono i loro esponenti in un recinto canonico e condizionante, ma che nella loro incessante dialetticità diventano matrici di associazioni inedite e allargate, prima impensabili se non occasionalmente.

    Per questo motivo, riteniamo pertinente e sollecitante pensare alla scienza e parlare della scienza come di una “istituzione diffusa”, alla stregua di tante altre contemporanee organizzazioni logistiche, di accoglienza e di gestione, che tendono a rispondere alle prevalenti istanze di aggregazioni dinamicamente funzionali e non più rigidamente e definitivamente strutturali. 

    In definitiva come osservava Esposito in un contesto specificamente politico, anche nel contesto scientifico una “logica d’insieme”, una logica aggregativa, risulta più rispondente e produttiva rispetto a una “logica insiemistica”, una logica concernente insiemi certamente qualificati, ma altrettanto certamente predeterminati e precostituiti.

    (gv)

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