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    Macchina, sostantivo un poco femminile e un poco maschile

    di Gian Piero Jacobelli

    Pesanti o leggere, dure o morbide, estreme o intermedie, la tecnologia e la macchina, che della tecnologia è il frutto spesso illegittimo, continuano a sorprenderci per la loro capacità di non essere mai dove le cerchi: così almeno sembra di cogliere nel panorama tecnologico contemporaneo, incluso quello che, fascicolo dopo fascicolo, con nomi e cognomi, luoghi e situazioni, emerge dalle pagine della nostra rivista. Una macchina, quella che veniva descritta come una estensione potenziata del corpo umano, è andata nascondendosi dietro le lenti del microscopio, si è miniaturizzata se non addirittura molecolarizzata. Per contro, l’altra macchina ha assunto le dimensioni smisurate della rete o, meglio, delle tante reti che ancora si disputano il mondo, pretendendo di ascoltare tutto, di vedere tutto, ma al tempo stesso, poiché il tutto è nemico del qualcosa, smarrendo il controllo delle cose che contano. 

    Macchine che vanno, come quelle di cui, talvolta un poco intempestivamente, si annunciava la morte nel fascicolo scorso. Macchine che vengono, come quelle di cui si parla in questo fascicolo, che fanno da sempre parte della nostra vita, le macchine narrative, ma che oggi riemergono con una sorta di nostalgia per quella parola organica in cui il corpo trovava la sua matrice espressiva e strumentale. 

    Non a caso, nella pletora delle protesi tecnologiche che ci circondano, si tende a confondere il desiderio con l’eccitazione, un poco naturale e un poco artificiale, un poco reale e un poco virtuale, un poco femminile e un poco maschile, come per ogni androide che si rispetti. 

    L’alternativa più radicale, tuttavia, non risiede tra macchine desideranti e macchine celibi, come si diceva una volta per dire che la macchina stava diventando fine a se stessa, oggetto alienante di un soggetto alienato. Piuttosto, tra macchine dell’azione e macchine del pensiero, le prime destinate a una determinata ripetizione del fare, le seconde adibite a una determinante ricognizione dell’essere. Come osserva Giorgio Israel in una recentissima riflessione sulla «macchina vivente», se è impossibile dimostrare che l’uomo è una macchina, si possono realizzare macchine che si comportano come un uomo, con il rischio che l’uomo debba adattarsi alle macchine, comportandosi come le macchine, pensando come le macchine. 

    In definitiva, la macchina resta importante, non perché se ne debba imitare la straordinaria efficienza, che è almeno in origine una imitazione dell’uomo, ma perché costituisce una riflessiva opportunità di conoscenza, per ritrovare nella macchina, senza differenza di genere, quella misura d’uomo, che è lo specchio inconsapevole delle nostre passioni. è vero, infatti, quanto affermava Leopardi, che se l’uomo non si interessa a se stesso, non è capace di interessarsi a nulla. Ma è vero anche il contrario: che guardarsi intorno è un primo passo per guardarsi dentro.

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