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    Metaverso o Metainverso?

    Tra l’andare oltre e l’andare altrove, nella dimensione della Rete il Metaverso, reso popolare dalle recenti dichiarazioni di Mark Zuckerberg, suscita non poche perplessità in merito alle sue reali finalità e all’atteggiamento psicologico che presuppone.

    di Gian Piero Jacobelli

    Che lo abbia proposto un paio di mesi fa Mark Zuckerberg nel contesto di una trasformazione – difficile dire se si tratti di evoluzione o di mimetizzazione – di Facebook, su cui si stavano addensando sospetti e critiche, dal punto di vista sia economico sia etico, dovrebbe suggerire comunque una qualche prudenza nel valutare caratteristiche e opportunità del cosiddetto Metaverso.

    Non tanto perché del pragmatismo un poco cinico di Zuckerberg non ci si possa fidare già da quando creò Facebook. Molti ricorderanno il film del 2010 Social Network sul geniale studente di Harvard: «Una storia di soldi, sesso, genio e tradimento», come la definiva lo scrittore Ben Mezrich nel libro da cui venne tratta la sceneggiatura. Né perché proprio negli stessi giorni in cui pensava di cambiare nome – non più Facebook, ma Meta – le agenzie di stampa diffondevano le accuse di una sua dipendente, Frances Haugen, che gli imputava, documenti alla mano, di avere deliberatamente messo a rischio la sicurezza dei minori e i diritti democratici dei suoi quasi tre miliardi di utenti.

    Per inciso, va detto che Zuckerberg ha rigettato quelle accuse, definendole “illogiche” e rivendicando il suo impegno personale e i suoi investimenti per individuare e contrastare i rischi eventuali impliciti nella utilizzazione delle piattaforme da parte dei più giovani, con riferimento ai suoi stessi figli. 

    Ma il problema a nostro avviso non sta tanto nella crescente ondata di fake news, di contenuti violenti, di distorsioni politiche e soprattutto elettorali. Il problema sta proprio nella idea del Metaverso o, meglio, nella idea che il futuro della comunicazione privata e pubblica risieda nel Metaverso.

    Il Metaverso, come si legge in Wikipedia, la enciclopedia del nostro tempo, che non riesce mai a essere davvero contemporaneo, «è un termine coniato da Neal Stephenson in Snow Crash (1992), libro di fantascienza cyberpunk, descritto come una sorta di realtà virtuale condivisa tramite Internet, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar». Insomma, un altro mondo per un altro soggetto.

    A parte i vincoli imposti dalle tecnologiche relazioni tra un tale mondo e un tale soggetto, congiunti, ma separati da una infinità di mediazioni strumentali, programmate per sostituirsi ai nostri organi di senso, dalla vita al tatto e via dicendo, a noi, al nostro modo di intendere il mondo e il soggetto, viene spontaneo chiedersi perché si senta il bisogno di un altro mondo e di un altro soggetto.

    Le risposte più concrete, ma forse anche più ipocrite, riguardano sostanzialmente le funzioni formative, progettuali, operative del Metaverso. Già Stephenson ipotizzava, infatti, che nel Metaverso chiunque potrebbe realizzare situazioni e ambienti in cui i potenziali utenti confluirebbero per soddisfare molte delle loro quotidiane esigenze: dal lavoro allo svago, dal consumo alle relazioni interpersonali. Del sesso non parliamo, anche se si può intuirne la importanza dietro a tutte queste elucubrazioni fantascientifiche.

    In effetti, quello che potremmo definire come il punto di vista funzionale, già oggi lascia intravedere un’alternativa preoccupante. 

    Da un lato, lo scenario prospettato dallo stesso Zuckerberg, di un passaggio dall’attuale Web 2.0, in cui gli utenti cessano di essere spettatori passivi e si trasformano in creatori di contenuti, al prossimo Web 3.0, in cui Internet si “incarna” in un sistema in cui le esperienze reali e digitali risultano indissolubilmente intrecciate grazie alle nuove tecnologie 3D. 

    Dall’altro lato, secondo alcuni la terza versione del Web potrebbe risolversi in un Internet del tutto incontrollabile e condizionato dallo sviluppo delle criptovalute, della blockchain e delle tecnologie collegate. Insomma, un mondo non tanto “presunto” quanto “preteso”, un mondo parallelo all’attuale, in grado di aggirare le normative, i vincoli, le garanzie che il mondo attuale, sia pure tra mille spinte e controspinte, ha messo a fuoco in molti anni di dialettica relazionale e istituzionale.

    In ogni caso, prescindendo da finalizzazioni specializzate ed evidentemente interessate, basterebbe porre mente al problema identitario, incarnato in quella suggestione dell’avatar che si risolve non soltanto in una icona grafica quanto in una alternativa personale: un invito ad affrontare gli sviluppi della propria personalità non affrontandone le difficoltà e le contraddizioni, ma costituendosene un’altra e sfuggendo di conseguenza a un incontro impegnativo, ma creativo con se stesso.

    In un articolo sul Metaverso, apparso qualche giorno fa sulla nostra Home Page, Tanya Basu ricordava, a proposito dei progressi compiuti nella personalizzazione degli avatar dal punto di vista della espressione dei sentimenti e da quello della resa corporea, come lo stesso Zuckerberg evidenziasse che «nel Metaverso molti non vorranno assomigliare al se stesso reale». Aggiungendo che «per questa ragione le persone si truccano o si fanno tatuaggi».

    Ci sarebbe paradossalmente da chiedersi se, quando saremo tutti o quanto meno prevalentemente altrove, resterà ancora qualcuno a occupare gli spazi e i tempi della realtà reale; di quella realtà in cui da millenni misuriamo le nostre opportunità e i nostri intendimenti. Se, per perseguire “il meta” (prefisso), non rischiamo di smarrire “la meta” (sostantivo). Di trovarci in un Metainverso dove, sforzandoci di andare oltre e continuando a prendere fischi per fiaschi, finiremo per non andare da nessuna pare o addirittura per tornare più indietro.

    (gv)

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